Sviluppo, modernità’ e civiltà nel Regno delle due Sicilie
Il 20 marzo 1861 cessa di esistere il Regno delle due Sicilie. Battaglie violente, plebisciti d’annessione poco democratici e una serie di calunnie contro il governo dei Borbone, pongono fine ad uno degli stati italiani più potenti di quel secolo. Non sono pochi i documenti storici che testimoniano il potere economico e l’avanzamento sociale di Napoli, del Sud e dell’intero regno meridionale. La conquista piemontese capovolse la situazione a tal punto da generare la cosiddetta “questione meridionale” e nacque un movimento di uomini e di idee che lottò per ridare lustro ad un Mezzogiorno martoriato e sfruttato.
Il Regno delle due Sicilie, lo Stato preunitario più industrializzato
Una serie di primati del Regno delle Due Sicilie testimoniano di una realtà storica soffocata dall’ancora attuale “dittatura” settentrionale. Nel 1861 un censimento effettuato dal neonato Regno d’Italia dimostrò che il Regno delle due Sicilie era lo Stato preunitario più industrializzato in assoluto, essendo infatti circa 1.600.000 gli addetti su circa 3.130.000 complessivi di abitanti per un totale del 51% di lavoratori industrializzati.
Il Regno poteva vantare il maggior complesso industriale metalmeccanico d’Italia, grazie soprattutto al Real opificio meccanico e pirotecnico di Pietrarsa (NA), al polo siderurgico di Mongiana (VV) e alla fonderia Ferdinandea (RC). Inoltre, aveva cantieri navali sparsi per tutta la costa tirrenica, ionica ed adriatica. Solo il Real opificio meccanico e pirotecnico di Pietrarsa dava lavoro a 1125 operai. Da questo importante polo metalmeccanico sono nate le prime locomotive a vapore d’Italia.
Il Real opificio meccanico e pirotecnico di Pietrarsa (Napoli)
Nel 1830 Ferdinando II di Borbone (1810-1859), appena salito al trono, fa costruire a Torre Annunziata una piccola officina per la produzione di materiale meccanico e pirotecnico per usi militari. L’iniziativa si inserisce nel processo di rinnovamento che il giovane Re, abbandonata la politica reazionaria dei suoi predecessori, mette in atto per affrancare il Regno delle Due Sicilie dalla supremazia industriale e tecnologica straniera. Il 3 ottobre del 1839 viene inaugurato nel Regno il primo tratto ferroviario italiano lungo 7.406 metri: da Napoli a Portici in 10 minuti. Il treno inaugurale era composto da due convogli trainati da locomotive gemelle: la Bayard e la Vesuvio, progettate dall’ingegner Armand Bayard de la Vingtrie, su prototipo dell’inglese George Stephenson. Lo sviluppo delle strade ferrate è la punta di diamante della strategia politicoeconomica del sovrano. Occorreva quindi individuare un luogo più ampio dove realizzare un nuovo e più grande opificio in grado di provvedere alla costruzione di materiale ferroviario. La scelta cade su Pietrarsa, l’antica Pietra Bianca divenuta Pietrarsa dopo essere stata raggiunta e “arsa” dalla lava del Vesuvio durante l’eruzione del 1631. Pietrarsa confina con i comuni di Portici, S. Giovanni a Teduccio e S. Giorgio a Cremano. Nel 1842 nell’Officina lavorano circa 200 operai. Un editto reale ordina: “E’ volere di Sua maestà che lo stabilimento di Pietrarsa si occupi della costruzione delle locomotive, nonché delle riparazioni e dei bisogni per le locomotive stesse degli accessori dei carri e dei wagons che percorreranno la nuova strada ferrata Napoli-Capua”. Inizia a Pietrarsa la costruzione delle prime sette locomotive costruite con materiali inglesi su modello della locomotiva Veloce acquistata in Inghilterra nel 1843. Questi i nomi delle locomotive: Pietrarsa, Corsi, Robertson, Vesuvio, Maria Teresa, Etna, Partenope. Le locomotive si aggiungono a quelle di fabbricazione inglese arrivate nel regno tra il 1842 e il 1844: Papin, Pompei, Sorrento, Ercole, Parigi, Lampo, Freccia. Nel 1845 lo Zar Nicola I di Russia visita le officine su invito di Ferdinando. L’interesse e l’ammirazione per il complesso è tale che lo Zar ordina al suo ingegnere Echappar di rilevare la pianta dello stabilimento con la sistemazione delle macchine, perché venga riprodotta esattamente nel complesso industriale di Kronstadt in costruzione in Russia. Qualche anno dopo l’opificio è in pieno sviluppo, vi lavorano 500 operai. Il complesso si è arricchito di nuovi edifici: l’officina delle locomotive; la gran sala costruzioni con macchine utensili con l’impianto di trasmissioni ed il banco per aggiustatori e grandi gru; la fonderia; il reparto per le lavorazioni delle caldaie; il reparto fucineria; la sala modelli con ampi magazzini. Sorge, poi, la palazzina della direzione con vicino la biblioteca e il gabinetto di chimica. Con l’Unità d’Italia, dal 1861 l’opificio di Pietrarsa entrò in una fase difficile; una relazione dell’ingegnere Grandis, voluta dal governo piemontese dipingeva negativamente l’attività e la redditività dell’opificio consigliandone addirittura la vendita o la demolizione. L’anno dopo avveniva la cessione della gestione alla ditta Bozza; ciò portò alla riduzione dei posti di lavoro, a scioperi e gravi disordini repressi nel sangue. Il 6 agosto 1863 una carica di bersaglieri provocava 7 morti e 20 feriti gravi. Tuttavia, nonostante la parziale dismissione degli impianti, nel successivo decennio vennero prodotte oltre 150 locomotive. Il ridimensionamento di Pietrarsa continuò sino alla riduzione a 100 dei posti di lavoro finché nel 1877 lo Stato assunse direttamente la gestione sotto la direzione dell’ingegnere Passerini.
Il Polo siderurgico di Mongiana (Vibo Valentia)
Il Polo siderurgico di Mongiana, fondato tra il 1770 e il 1771 dalla dinastia dei Borbone, fu realizzato dall’architetto napoletano Mario Gioffredo e dava lavoro a circa 1.500 operai e sfornava in un anno circa 1.442 canne per fucile e 1.212 canne per pistola. Per quei tempi può essere considerato un risultato straordinario, frutto di un lavoro di ricerca e di riqualificazione che svolsero due dei principali regnanti borbonici: Carlo III di Borbone e Ferdinando IV. Il primo, essendosi reso conto dell’arretratezza dei metodi di lavoro degli operai che lavoravano all’interno del polo siderurgico, dopo una lunga ricerca per l’Europa, trovò e mandò in Calabria mineralogisti sassoni ed ungheresi affinché insegnassero a quei lavoratori nuovi metodi di produzione. Inoltre il regnante a quanto pare aveva anche una certa sensibilità che oggi potremmo definire ecologista. Infatti nel 1773 Carlo III di Borbone emanò il “decreto salvaboschi” per impedire che lo stesso potenziamento dell’azienda potesse causare danni consistenti all’ambiente che lo circondava. Anche Ferdinando IV decise di attuare delle modifiche al sistema di produzione di Mongiana per migliorarne la qualità salvaguardando l’ambiente.
A Mongiana tra il 1822 ed il 1829 venne realizzato il primo ponte sospeso in ferro d’Italia: il Ponte sospeso “Real Ferdinando” sul fiume Garigliano, progettato su idea del Prof. Carmine Antonio Lippi, e, tra 1832 e 1835, il Ponte “Maria Cristina” sul fiume Calore Irpino, progettato dall’Ingegnere Luigi Giura. Sempre a Mongiana furono costruite le rotaie per la prima ferrovia italiana, la Napoli-Portici. Non solo, tutte le rotaie della linea ferroviaria fino a Bologna sono state fuse e costruite sempre nella reale fabbrica. Inoltre fu costruito il fucile da fanteria modello “Mongiana“. Era tanto importante la Fabbrica d’armi di Mongiana che ricevette la visita del re di Napoli Ferdinando II di Borbone: precisamente il 16 e 17 ottobre 1852. A Mongiana spetta il primato di primo complesso siderurgico della penisola italiana; infatti i prodotti siderurgici di Mongiana saranno indispensabili per la nascita e l’evoluzione del primo impianto per la produzione di locomotive di Pietrarsa.
Purtroppo in seguito all’unità d’Italia, avvenuta nel 1861, questa, come altre grandi strutture meridionali, sarà vittima di una profonda crisi dovuta alla cattiva gestione dello stato centrale e alla totale mancanza di sovvenzioni. Tale crisi sarà così profonda da portarne alla chiusura definitiva nel 1881.
La fonderia “Ferdinandea”, nella provincia di R. Calabria
Un’altra importante struttura calabrese, vicina a quella di Mongiana, è la cosiddetta Fonderia Ferdinandea, sita nella zona delle Serre. Il complesso occupava 15.000 metri quadrati. Oltre alla fonderia, composta da 4 fabbricati, vi era l’altoforno, la residenza amministrativa, l’alloggio per i soldati, una chiesa e le carceri. Dall’altoforno venivano prodotti 6.860 quintali di ghisa all’anno. Per sviluppare questo polo furono investiti da parte dei Borbone più di 400.000 ducati. Tra il 1833 e il 1834 furono prodotti 5000 cantaie di ferro (ogni cantaia era costituita da 100 rotoli). L’impianto siderurgico di “Ferdinandea”, nei territori dei comuni di Stilo e Bivongi, nella provincia di Reggio Calabria, ed in quello di Serra San Bruno, Mongiana e Brugnaturo in provincia di Vibo Valentia, con le sue officine in riva al fiume Don Luca a quota 1044 e gli edifici adibiti alla comunità operaia a quota 1061 cioè a 17 metri di dislivello, rappresenta ancora oggi una distribuzione urbanistica razionale.
Gli architetti che si sono impegnati alla realizzazione provenivano da Napoli e appartenevano a quella corrente europea sorta alla fine del ’700 di cui facevano parte Robert Owen, Charles Fouriere J. Baptiste Godin. Owen descrive così il nucleo residenziale da lui stesso ideato: ”Tutti i fabbricati saranno riuniti in una grande piazza a forma di parallelogramma….. il fabbricato centrale comprenderà la chiesa; i giardini saranno lasciati all’esterno del parallelogramma; abbastanza distanti da esso……schermati da una zona alberata, sorgeranno i laboratori e le industrie”. Owen paragona il suo parallelogramma ad una macchina e conclude: ” Se l’invenzione di tante macchine ha moltiplicato il rendimento del lavoro questa è una macchina per moltiplicare l’efficienza fisica ed il benessere mentale di tutta la società”.
L’intenzione di Owen era di modificare sostanzialmente le strutture del sistema esistente al fine di giungere alla trasformazione e al perfezionamento della natura dell’uomo, dando molta importanza all’istruzione e al lavoro per la giusta prosperità. Si devono a Owen i primi asili in Inghilterra. Egli era convinto dell’assoluta malleabilità dell’individuo umano, e la sua teoria sull’educazione costituisce la pietra angolare di tutto il suo sistema: l’educazione è necessaria per l’uomo che vuole dominare la macchina e sfruttare le risorse della rivoluzione industriale e nello stesso tempo contribuisce a migliorare il rendimento individuale.
Questa idea di Owen, che è il primo piano urbanistico moderno sviluppato, venne annunziata all’opinione pubblica nel 1817, ma sappiamo che a quell’epoca il complesso ” Ferdinandea” era stato già realizzato, seguendo uno schema modulare. L’opera di Re Ferdinando II di Borbone alla fine del secolo XVIII era indirizzata a migliorare le precarie condizioni di vita dei calabresi. Coadiuvato dal Filangeri, dal Genovesi e dal Gullani, Ferdinando abolì il baronaggio e con la istituzione della “Cassa Sagra” edificò tutte quelle zone colpite dal terremoto e risanò le industrie ed il commercio.
La produzione di acciai fu interrotta dopo l’unità d’Italia, ma continua oggi con lo stesso procedimento in Val D’Aosta nelle acciaierie di Cogne, ove si producono gli stessi acciai definiti speciali ed impiegati sopratutto in ingegneria spaziale.
La Flotta mercantile ed i cantieri navali del regno
Nel 1818 il Regno delle Due Sicilie disponeva di 2.387 navi, nel 1833 il numero salì a 3.283, di cui ben 262 superiori alle 200 tonnellate e 42 che oltrepassavano le 300 tonnellate. Nel 1834 i bastimenti arrivarono a 5.493 per salire a 6.803 nel 1838. Nel 1852 il numero di navi e bastimenti arrivò a 8.884. Nel 1860 la flotta mercantile borbonica, seconda d’Europa dopo quella inglese, contava 9.848 bastimenti per 259.910 tonnellate di stazza, dei quali 17 piroscafi a vapore per 3.748 tonnellate, 23 barks per 10.413 tonnellate 380 brigantini per 106.546 tonnellate, 211 brick schooners per 33.067 tonnellate, 6 navi per 2.432 tonnellate e moltissime imbarcazioni da pesca.
I cantieri navali erano sparsi per tutta la costa tirrenica, ionica e adriatica. Praticamente in ogni città costiera vi erano insediamenti accompagnati da scuole di formazione professionale e scuole marittime e nautiche. Gaeta, prima dell’unità d’Italia, non era solo una roccaforte militare che dava ospitalità a circa 10.000 soldati; in realtà, attorno alla fortezza ruotava un’agricoltura ricchissima ed avanzata costellata da circa 300 case-frantoio che davano lavoro a centinaia di persone, come pure vi erano fabbriche di sapone e di reti. Gaeta, come altre città del Regno, era ricchissima e la sua flotta mercantile vantava molte società di navigazione con al servizio duemila marinai sempre in viaggio. Essa era composta da 100 brigantini e martegane, da 60 a 220 tonnellate di stazza, 60 paranzelle da 30-40 tonnellate e circa 200 barche a vela da 2 a 20 tonnellate di stazza che, ogni giorno, si recavano a Napoli o a Roma attraverso il Tevere, trasportando merci e passeggeri. I cantieri navali di Gaeta, da sempre attivi, costruivano brigantini, galeoni, saette e velieri che venivano anche esportati in tante altre nazioni.
Tutto questo stava togliendo prestigio e competitività alla più imponente forza navale del tempo: la Marina Reale Inglese. Non solo, le navi napoletane toglievano fette sempre più ampie al mercato della cantieristica inglese. Erano tecnologicamente avanzate e anche più economiche.
Il varo della prima nave a vapore del mediterraneo la “Ferdinando I”, l’attuazione di rotte che giungevano in America del Nord, del Sud e nel Pacifico, ponevano le basi per intaccare i mercati commerciali Imperiali. Soprattutto, da lì a pochi anni, si sarebbe aperto il canale di Suez, e tal cosa avrebbe rischiato di fare diventare il porto di Napoli, non solo uno dei porti cardine dell’Europa, ma innanzitutto la porta dell’Europa verso il cuore dell’impero inglese: LE INDIE. Questo non doveva accadere, non poteva essere tollerato. Il resto lo conosciamo …
All’indomani dell’invasione piemontese, l’industria e la cantieristica del Regno delle Due Sicilie venne praticamente quasi tutta smontata e smantellata: si doveva estirpare alla radice quel temibile concorrente economico. Non solo, lo Stato Sabaudo, con una politica protezionistica a favore del Nord, con anticipi di capitale e generosi sussidi a favore delle compagnie liguri e della nascente industria padana, affossò “patriotticamente” la rimanente economia meridionale. Non sono pochi, infatti, gli storici che sostengono che con l’avvento dei piemontesi intere popolazioni meridionali siano state costrette per la fame e la miseria ad abbandonare in massa la loro terra. Così che dieci anni di guerra civile e una politica da terra bruciata da parte dei Savoia, finirono per distruggere l’intero assetto economico del Regno.
Codice per lo Regno delle Due Sicilie
I regnanti borbonici sapevano essere all’avanguardia anche per quanto riguarda quel che oggi definiamo <welfare state>. Dopo la caduta di Napoleone, l’unico a lasciare in vigore i codici francesi fu il sovrano Ferdinando I, il quale incaricò alcuni giuristi meridionali di rielaborarli e nel 1819 venne alla luce il Codice per lo Regno delle Due Sicilie, che pose il Regno al primo posto anche dal punto di vista giudiziario e civile.
Il “Codice per lo Regno delle Due Sicilie” era diviso in 5 parti: Leggi civili, Leggi penali, leggi della procedura nei giudizi civili, penali e per gli affari di commercio; in pratica rimase invariato il “Code Napoleon”. Si soppressero solo pochissime cose come il matrimonio civile e il divorzio, alcune norme concernenti l’eredità e alcune pene per i reati contro la religione; “Quel codice aveva assunto anche un carattere esemplare che non va sottovalutato. Costituiva infatti il primo esempio di una codificazione della Restaurazione“.
In questo modo le Due Sicilie si trovarono, dal punto di vista civile e giudiziario, al primo posto tra gli stati italiani preunitari nei quali la situazione era completamente diversa con il Piemonte in testa a tutti nel seguire la via ferocemente reazionaria, tanto che solo nel 1854 si dotò di un nuovo Codice Civile.
Ricordiamo anche che nelle Due Sicilie ci fu l’istituzione del primo sistema pensionistico in Italia (introdotto nel 1813 con ritenute del 2 % sugli stipendi degli impiegati statali).
Nelle Due Sicilie vi era anche la più alta percentuale di medici per abitanti in Italia (in tutto 9390 su circa 9 milioni di abitanti; Piemonte, Liguria, Lombardia, Toscana e Romagna ne avevano 7087 su 13 milioni di abitanti) con il minor tasso di mortalità infantile d’Italia, fino alla fine del 1800 i livelli più elevati si registravano in Lombardia, Piemonte ed Emilia Romagna.
San Leucio (Caserta), soprannominata Ferdinandopoli, il primo esempio di repubblica socialista della storia contemporanea.
A Ferdinando I va altresì attribuita la fondazione di uno dei pochi nuclei socialisti, in grado di sopravvivere tra realtà e utopia: Ferdinandopoli, meglio nota come San Leucio. Ecco un estratto dello Statuto del re Ferdinando I emanato alla popolazione del piccolo borgo:
“La legge che io vi impongo è quella di una perfetta uguaglianza …. alle coppie di novelli sposi si concederà una delle nuove case che sono state costruite con tutto ciò che è necessario pe’ comodi della vita, e i due mestieri, co’ quali lucrar si possano il cotidiano mantenimento”. Alla base di questa piccola realtà c’era uno dei primi statuti socialisti, il quale si basava su tre principi modello:
1- l’educazione, considerata l’origine della pubblica tranquillità;
2- la buona fede, ossia la prima delle virtù sociali;
3– il merito, la sola distinzione tra gli individui.
Inoltre, il lusso e il testamento dovevano essere uguali dinnanzi alla legge e allo Stato e perciò non c’erano differenze fra maschi e femmine e fra classi sociali. Questa piccola realtà istituzionale riusciva concretamente a far vivere degli ideali socialisti anacronistici e ritenuti ancora oggi utopici.
L’utopia della “Città del Sole” del calabrese Tommaso Campanella, vittima dell’Inquisizione e della dominazione spagnola a Napoli e in Sicilia, sarebbe stata realizzata proprio nel “retrogrado” regno dei Borbone, dove, a dispetto delle calunnie e delle menzogne diffuse dalla centrale londinese della massoneria, per iniziativa dei Borbone era fiorito l’Illuminismo di Vico, Galiani, Genovesi, Pagano, Filangieri, il più ragguardevole nell’ambito dell’Illuminismo italiano. San Leucio è il primo esempio di repubblica socialista della storia contemporanea. E’ curioso che esso risalga a un despota illuminato, quando un altro despota illuminato, il re del Portogallo Giuseppe I, asservito all’Inghilterra, aveva stroncato nelle colonie brasiliane le prime repubbliche socialiste della storia, le Encomiendas progettate, fondate e dirette dai Gesuiti.
San Leucio era in origine una residenza di caccia di Ferdinando IV di Borbone. Dopo la morte prematura del figlio principe ereditario Carlo Tito, avvenuta alla fine del 1778, non volendo più recarsi nell’amena località legata alla memoria del caro estinto, il re decise di destinarla ad altro più utile uso.
“Essendo giunti gli abitanti del luogo, con le famiglie aggregatesi, al numero di 134, temendo che tanti fanciulli e fanciulle, che andavano sempre aumentando, per mancanza di educazione divenissero un giorno e formassero una piccola comunità di scostumati e malviventi, pensai di stabilire una Casa di educazione per i figli dell’uno e dell’altro sesso, servendomi, per collocarveli, del mio “casino” (così era chiamata la residenza di caccia). Col tempo, poi, rivolsi altrove le mie mira, e pensai di rendere quella Popolazione utile allo Stato, alle famiglie e a ogni individuo, introducendo una manifattura di sete grezze e lavorate di diverse specie fin qui poco e malamente conosciute, procurando di ridurla alla miglior perfezione possibile”.
La colonia si chiamerà poi Ferdinandopoli nei pressi di Caserta. Il suo Statuto, basato sul principio dell’eguaglianza dei cittadini, fu stilato personalmente dal re. Esso anticipava, sia pure nell’ottica del dispotismo illuminato, gli stessi concetti della Comune di Parigi del 1870, che notoriamente fu stroncata, non a caso nel sangue, dal massone Thiers e dal suo boia generale Gallifet.
La fabbrica tessile, sorta attorno alla città campana, possedeva 82 ettari di terreno per i bisogni alimentari degli operai, che abitavano in case a schiera progettate dall’architetto Collecini. La vita che vi si conduceva era dura ma libera da vincoli padronali. L’abbigliamento era semplice, pratico e uguale per tutti. La sveglia suonava prestissimo, si assisteva alla messa e subito dopo ci si recava sul posto di lavoro. Vi era un’interruzione a mezzogiorno per il pranzo e si riprendeva a lavorare alle 13,30 fino al tramonto.
L’istruzione era obbligatoria e l’educazione orientata a formare la coscienza civile. Il matrimonio era disciplinato al fine di preservare la comunità da pericolose influenze esterne. Se una ragazza voleva sposare un forestiero, riceveva una dote di cinquanta ducati e se ne doveva andare. Se accadeva il contrario, la sposa forestiera doveva seguire un corso di tessitura e poi entrava a pieno titolo nella comunità. I testamenti erano aboliti e l’eredità del defunto era divisa fra i figli e il coniuge superstite. Ove questi non vi fossero, l’eredità era incamerata dal Monte degli Orfani.
Esisteva una Cassa di Carità che prestava denaro senza interesse a chi ne avesse bisogno e che provvedeva a erogare le pensioni. Era alimentata dai cittadini mediante un prelievo mensile sulla busta paga corrispondente a 85 centesimi di lira aurea. Erano proibite le liti fra cittadini e i contrasti di poco conto venivano risolti dagli anziani e dal parroco. Esisteva un carcere con un sovrintendente. Si racconta che una volta vi finì un leuciano. Il sovrintendente gli fece portare in cella il telaio perché “non oziasse” e continuasse a provvedere al sostentamento della famiglia. Doveva produrre tre paia di calze alla settimana.
San Ferdinando di Puglia, esempio di colonia agricola (da Wikipedia)
Fondato da Ferdinando II di Borbone, si trova alla sinistra del fiume Ofanto, su una piccola collina che domina sui territori limitrofi, a quota 68 m s.l.m. ed è circondato da vigneti, uliveti, carciofeti e pescheti. Fu fondato nel 1847 come colonia agricola, derivata dall’antico borgo di San Cassano, al fine di tentare di risollevare alcuni problemi di carattere economico e sociale che affliggevano la parte meridionale del Tavoliere delle Puglie. L’idea di fondare una colonia agricola nella zona fu concepita dal giovane monarca Ferdinando II di Borbone in occasione del suo viaggio ufficiale attraverso il regno, svoltosi nel 1831. Il progetto socio-economico della colonia, che fu presentato nel 1839 dall’intendente di Capitanata Gaetano Lotti, prevedeva:
– L’insediamento di 50 famiglie provenienti dalle saline di Barletta (l’attuale Margherita di Savoia); – un fondo di 10 versure (ogni versura corrispondente a circa 12.000 metri quadrati) concesso ad ogni famiglia; – una casa colonica con 2 cavalli, una carretta, attrezzi, sementi, piante, ecc…
Inoltre per uso comune della colonia sarebbero stati assegnati 100 versure da destinare al pascolo di buoi mentre altre 60 versure sarebbero state riservate per la piantagione di vigne e alberi da frutto. La colonia sarebbe stata dotata in aggiunta di una chiesa, un centimolo (mulino) con forno e 2 pozzi, alcune case in muratura e un centinaio di pagliai. Nel 1848 la località prese la denominazione di San Ferdinando, in onore del re santo Ferdinando III di Castiglia e León, patrono del monarca delle Due Sicilie Ferdinando II di Borbone. Successivamente al toponimo fu aggiunta la denominazione di Puglia in modo da distinguere la cittadina dall’omonimo comune della Calabria.
La villa reale di Portici (NA), nella quale vengono raccolti i primi reperti della storia di Ercolano e Pompei
I lavori per la realizzazione della villa, iniziati nel 1738, furono affidati prima al Medrano, poi ad Antonio Canevari, ed infine intervennero anche il Vanvitelli ed il Fuga. Re Carlo acquistò le aree verdi circostanti per il parco ed anche la villa del conte di Palena e quella del principe di Santobuono, che furono poi incluse nella nuova costruzione. Nel 1740 si decise di espandere il sito verso il mare acquistando il bosco dei d’Aquino Caramanico, del palazzo Mascabruno e di quello del principe d’Elboeuf. A lungo si è creduto che il Palazzo fosse stato ideato e realizzato in funzione delle ville preesistenti acquistate da Re Carlo; oggi però, gli studiosi, in base ad un’attenta lettura delle antiche proposte progettuali (che non furono accettate dal Sovrano perché finalizzate allo spostamento della strada regia), trovano spiegazione della particolare costruzione della Reggia non tanto in motivazioni architettoniche quanto piuttosto in motivazioni di carattere politico e sociale: Re Carlo voleva cioè «sperimentare una nuova forma di palazzo che incarnasse verso l’esterno l’idea di “monarchia clemente”, che consentisse al popolo di sentirsi materialmente e fisicamente più vicino al sovrano» (Barbera). Nato come dimora estiva della Corte, il Palazzo Reale divenne col tempo residenza reale e sede del Museo Ercolanense, voluto da Re Carlo per raccogliere gli oggetti archeologici portati alla luce ad Ercolano. Portici divenne così una delle mete più visitate. Terminati i lavori nel 1742, la Reggia si rivelò però insufficiente ad ospitare tutta la corte, e così molte famiglie aristocratiche, per star vicino ai sovrani, acquistarono o fecero costruire ville nei dintorni, creando quel patrimonio artistico caratteristico dell’area, noto come “Ville Vesuviane”. L’interesse per l’archeologia con l’avvio degli scavi di Ercolano e Pompei, iniziati nel 1738 per volere di Carlo III, non si limitò a rivoluzionare la storia del mondo antico, ma segnò in modo indelebile anche la civiltà europea. Non ci fu intellettuale, erudito, scrittore o artista che non sentisse il fascino di quel che stava rendendo al mondo il ventre del Vesuvio. Le vestigia che venivano alla luce vennero sistemate temporaneamente nella nuova villa reale di Portici (NA) e più tardi trasferite a Napoli nel Museo Archeologico (oggi Museo Nazionale).
Nella villa reale di Portici fu istituita l’Officina dei Papiri, un laboratorio che si occupava del recupero e restauro dei reperti provenienti dagli scavi d’Ercolano. Carlo III già nel 1755 aveva emanato un bando in cui si prescriveva la tutela del patrimonio artistico delle Due Sicilie che prevedeva pene detentive per chi esportava o vendeva materiale d’epoca. La biblioteca della Villa dei Papiri ci ha offerto prevalentemente opere di filosofia antica, in massima parte epicurea, ma anche, tra i papiri latini, opere di poesia e di oratoria.
Il reale Albergo dei poveri di Napoli tra gli edifici più maestosi mai costruiti in Europa, voluto da Carlo III di Borbone, nasce per ospitare i “poveri di tutto il regno” (come recita in latino l’epigrafe posta sull’ingresso dell’edificio napoletano). Nei piani dell’architetto Ferdinando Fuga, l’Albergo dei poveri avrebbe dovuto occupare una lunghezza di 600 metri (è invece di poco più corto) e 135 di larghezza, con un cortile centrale talmente spazioso che avrebbe dovuto contenere finanche una chiesa. Iniziato nel 1751, fu completato soltanto nel 1803, sotto Gioacchino Murat, per gli alti costi dell’opera. Per la sua realizzazione, infatti, Carlo III effettuò un lascito di 20.498 ducati, la regina Maria Amalia fu costretta a vendere diversi suoi gioielli, papa Benedetto XIV dovette alienare undici monasteri a seguito dell’abolizione dell’ordine degli Agostiniani. In più, re Carlo esentò da ogni tassa la costruzione e dovette lasciare un donativo ventennale prima di tornare in Spagna. Altri donativi li fece il suo successore, Ferdinando IV. I soldi comunque non bastavano mai: né per terminare i lavori, né per ospitare i poveri del regno anche perché, mentre si costruiva l’Albergo, lo stesso Vanvitelli edificava la reggia di Caserta, un’opera imponente con 1200 stanze, 34 scale e 1142 finestre, un giardino all’italiana ed un altro all’inglese per una lunghezza di circa 2,5 chilometri, e con l’ acquedotto realizzato perforando monti e attraversando le valli circostanti.
Durante il regno di Carlo III l’Albergo dei poveri accoglieva 8.000 tra indigenti e diseredati e si andava a debellare la piaga dell’accattonaggio; successivamente pure “donne perdute” e “giovani da rieducare” furono accolti nella struttura. Venne istituita l’assistenza sanitaria per gli anziani e gli inabili; molti giovani furono avviati ad una professione e venivano loro insegnate varie arti oltre allo studio della grammatica e dell’aritmetica. Furono istituiti molti collegi militari ancora oggi attivi, tra cui la Nunziatella, una delle scuole di formazione militare più note.
Real Teatro di San Carlo di Napoli, simbolo di una Napoli che rimarcava il suo status di grande capitale europea.
Nel 1737 fu edificato a Napoli, per volontà di Carlo di Borbone il quale donò alla struttura un fondo di 2.500 ducati, uno dei più importanti teatri d’Europa: il Real Teatro di San Carlo, costruito in soli 270 giorni, il più antico teatro d’opera in Europa e del mondo, nonché uno dei più capienti teatri all’italiana della penisola. Può ospitare più di duemila spettatori e conta un’ampia platea, cinque ordini di palchi disposti a ferro di cavallo più un ampio palco reale, un loggione ed un palcoscenico. Data le sue dimensioni, struttura e antichità è stato modello per i successivi teatri d’Europa. Affacciato sull’omonima via e, lateralmente, su piazza Trieste e Trento, il teatro, in linea con le altre grandi opere architettoniche del periodo, quali le grandi regge borboniche, fu il simbolo di una Napoli che rimarcava il suo status di grande capitale europea.
L’Osservatorio Astronomico di Capodimonte (NA)
Nel 1735 Carlo di Borbone istituì, per la prima volta nel sud della penisola italiana, la cattedra universitaria di Astronomia e Nautica, finalizzata soprattutto al miglioramento delle tecniche di navigazione, riprendendo le antiche connessioni tra l’osservazione del cielo e la pratica dell’orientamento in mare. I primi titolari della cattedra di Astronomia dovettero attenersi ad un insegnamento essenzialmente teorico oppure avvalersi di Specole e strumentazioni che avevano carattere privato ed erano legate ai vari collegi gestiti da ordini religiosi. Il primo progetto di costruzione di un Osservatorio Astronomico risale al decreto di Ferdinando IV nel 1791 a seguito di lunghe insistenze da parte dei titolari della cattedra di Astronomia che si erano succeduti nei decenni. Il primo nucleo fu creato utilizzando un’ala del Palazzo dei Regi Studi (attuale Museo Archeologico Nazionale), che conserva ancora oggi al primo piano una meridiana risalente a quel periodo. Gli eventi storici di fine settecento provocarono una interruzione del progetto e solo con l’ascesa al trono di Napoli di Giuseppe Bonaparte gli impegni per la costruzione di una Specola poterono ripartire, individuando come nuova sede il Belvedere del soppresso Monastero di San Gaudioso a Napoli. In seguito, data l’inadeguatezza della posizione del Belvedere il progetto di creazione di un Osservatorio Astronomico fu spostato sulla collina di Miradois, nei pressi della Reggia borbonica di Capodimonte. Il decreto di Gioacchino Murat che ne sancì la fondazione risale al 1812 ma i lavori si protrassero fino al 1819, grazie agli ultimi finanziamenti stanziati da Ferdinando di Borbone, risalito sul trono dopo il periodo francese. Quello di Capodimonte fu il primo edificio nella penisola ad essere progettato appositamente per adempiere alla funzione di Osservatorio Astronomico.
Real Fabbrica di Porcellana nel bosco di Capodimonte (NA)
La tradizione ceramica napoletana, che conserva grande prestigio ancora oggi, fonda le sue radici nella prima metà del XVIII secolo, quando prende avvio la produzione della Real Fabbrica di Capodimonte nel 1743. Istituita nel 1739 all’interno del complesso della Reggia di Capodimonte per volere del re Carlo di Borbone, questo tipo di produzione ceramica divenne famosa nel mondo per le sue caratteristiche di unicità. La composizione del tutto particolare della Ceramica di Capodimonte oltre che per ragioni prettamente stilistiche differenziava notevolmente le opere del Regno di Napoli dalle produzioni nord europee. Una delle massime espressioni della produzione di Capodimonte è considerato il Salottino di porcellana di Maria Amalia di Sassonia, moglie di Carlo di Borbone; realizzato in circa tre anni a partire dal 1757 per la sala del boudoir dell’appartamento privato della regina all’interno della Reggia di Portici è oggi visitabile nel Museo Nazionale di Capodimonte insieme alla Galleria delle Porcellane. Il fabbricato che ospitò la Real Fabbrica della Porcellana è rintracciabile all’interno del sito del Real Bosco di Capodimonte. Quando Carlo di Borbone divenne re di Spagna la manifattura fu trasferita nelle officine del Buen Retiro, vicino Madrid. La Real Fabbrica napoletana fu riattivata nei primi anni settanta del XVIII secolo da Ferdinando di Borbone presso la Reggia di Portici e il Palazzo Reale, producendo una serie di capolavori come sontuosi servizi da tavola e prezioso vasellame.
Il ‘700 napoletano
La formazione del museo archeologico e dell’officina dei papiri rispecchia quel periodo che attraversò tutto il ‘700 napoletano in cui i sovrani s’impegnarono nell’arricchimento culturale del proprio popolo; in questo periodo il regno formò Giovanbattista Vico, Gaetano Filangieri, Antonio Genovesi, Ferdinando Galiani, Giacomo Della Porta, Pietro Giannone, Mario Pagano. Il Regno vantava quattro università e il maggior numero di studenti universitari, e il 55% dei libri pubblicati in Italia erano di case editrici napoletane. Furono aperte biblioteche, accademie culturali (la più famosa l’Ercolanense, fondata nel 1755) e il Gabinetto di Fisica del Re ed erano organizzati frequenti congressi scientifici. I lavoratori del mondo dello spettacolo erano tutelati dal punto di vista previdenziale. Fu fondato l’Osservatorio Sismologico Vesuviano (primo al mondo), realizzato dal fisico Macedonio Melloni e sviluppato da Luigi Palmieri con annessa stazione meteorologica e Palermo divenne famosa per la presenza dell’astronomo Giuseppe Piazzi.
Nel 1778 il re Ferdinando di Borbone istituì in Sicilia un servizio di tutela monumentale con due Regie Custodie aventi a capo il Principe Ignazio di Biscari e il Principe di Torremuzza. Biscari è stato l’autore di numerose scoperte archeologiche presso Catania (un anfiteatro, un teatro, una vecchia curia e alcune terme); ha promosso gli scavi a Camarina, a Siracusa, a Lentini e a Taormina, descrivendo le sue scoperte archeologiche in un volume intitolato “Viaggio per tutte le antichità della Sicilia”, pubblicato a Napoli nel 1781; finanziò poi la costruzione di un ponte sul Simeto e fondò e finanziò l’Accademia degli Etnei. La fama del Principe era molto vasta, e numerose accademie italiane ed estere procedevano a nominarlo loro socio. Torremuzza invece era un appassionato di numismatica, tanto che nel 1762 pubblicò un volume dal titolo “Le antiche iscrizioni di Palermo”. Ha donato circa 12.000 volumi ai Gesuiti, che gestivano quella che divenne poi la Biblioteca Nazionale, oggi Biblioteca Regionale Centrale della Regione Siciliana.
A carico dei meridionali c’era il peso fiscale più basso di tutta la penisola italiana, e il Regno delle due Sicilie era il primo Stato Italiano per ricchezza. La rendita statale era quotata nella Borsa di Parigi al 120%. Il Regno delle Due Sicilie, perciò, riusciva a coniugare il benessere dello Stato con il benessere dei propri cittadini, il livello del quale per l’epoca considerata era molto alto ed era comunque maggiore a quello dei cittadini degli altri Stati Preunitari. Carlo Scarfoglio, nel suo libro “Il mezzogiorno e l’Unità d’Italia” ed. Parenti, nel tracciare la figura dell’Homo mediterraneus dirà: “…..è innegabile che fino a quando il mezzogiorno ha vissuto la sua vita mediterranea pura, senza esser mescolato ad altri affari che ai propri, che non erano che affari mediterranei, esso ha vissuto la sua grande epoca. La potenza, la forza e la ricchezza alla quale giungono in poco tempo le Città greche del litorale supera di molto persino quella straordinaria espansione della Grecia propria, che pure ha dato i meravigliosi frutti dell’epoca periclea.”
di Vincenzo Porpiglia
Leave a Reply