La legenda dell’Unità d’Italia
” La leggenda dell’Unità d’Italia “
di Vincenzo Porpiglia
con riferimenti, note e citazioni di: Carlo Alianello, Salvatore Cucinotta, Denis Smith, Giovanni Cantoni, Enrico Pani Rossi, Gigi Di Fiore, Francesco Saverio Nitti, Nicola Zitara.
“Grazie a tante opere scritte da seri studiosi sappiamo ormai che ci hanno raccontato una vera leggenda, una favola in merito alla costruzione dell’Italia in un’ibrida mescolanza di colori e simboli: col rosso, con l’azzurro Savoia, col nero, con squadre e compassi massonici, con piumetti di bersaglieri, berretti frigi, fiaccole. E chi l’ha costruita sono stati politicanti e studiosi del Nord e del Sud, in nome dell’unità, del progresso, della rivoluzione, del Re, del Duce. Non tutti insieme, si capisce, né tutti con la medesima voce, ma un po’ per volta, in armonica disarmonia”. ottobre 2015 Cap. I Cosa c’è dietro all’alibi dell’Unità? Perché raccontare ancora una volta come è stato conquistato il Sud Italia? E’ una domanda che si poneva già cinquant’anni fa Carlo Alianello nel suo “La Conquista del Sud. Il Risorgimento nell’Italia meridionale”. Uno dei tanti motivi potrebbe essere quello che gli italiani nonostante tutto si rifiutano di essere uniti o almeno di accettare quell’unità imposta con la forza delle armi. Per Alianello, questa gente era “in buonafede, ma ignorava i fatti, quelli veri; oppure voleva nascondere qualcosa, per diversissime ragioni spesso contrastanti”. Sicuramente era gente che dietro all’alibi dell’unità d’Italia, voleva nascondere ogni sozzura. Tuttavia alla fine come risultato abbiamo ottenuto: “Un’Italia divisa in due parti, una tutta bianca, l’altra tutta nera”. La cultura ufficiale ha fatto di questa leggenda aurea dell’unità, un mito, un baluardo roccioso che non intende minimamente scalfire. Prendiamo il caso di Ferdinando II, dipinto dalla cultura ufficiale come un “tragico burattino, tirannico e farsesco”; ma la Storia vera ci dice che non fu un tiranno, né uomo da far ridere. Ma per quale motivo fu tanto odiato da parte della propaganda laica, massonica e protestantica? Forse, perché “non portava baffoni e non andava a donne, possibilmente villane, per le fratte, col pretesto della caccia“, o forse perché, “era pio e difensore devoto della Chiesa”. Dal nono capitolo in poi, il libro di Alianello affronta cosa è successo nel meridione d’Italia dopo la raggiunta unità. In pratica fu cancellato o rapinato tutto ciò che di buono era stato fatto da Ferdinando II. “I colonnelli piemontesi pensarono a rizzar la schiena ai malinconici napoletani….; furono cacciati dal regno gesuiti, barnabiti, scolopi, monache e frati; furono incamerate le mense vescovili, le terre e i beni delle disciolte congregazioni religiose….” Lo studioso messinese Salvatore Cucinotta sul suo libro “Sicilia e Siciliani. Dalle riforme borboniche al rivolgimento piemontese”, elenca accuratamente tutta l’opera di spoliazione delle opere ecclesiastiche in Sicilia, da parte del nuovo regno. Un volume di oltre settecento pagine ignorato dagli storici conformisti, che purtroppo risulta assai difficile reperire; una copia è presente nella biblioteca personale di padre Tatì, parroco di S. Alessio. Chi è stato penalizzato maggiormente dall’avvento del nuovo regno fu “il contadino, il quale non ebbe più un tozzo di pane da rodere e in più gli toccò pagare tasse e gabelle delle quali fino allora mai aveva sentito parlare. Per la prima volta nella sua storia travagliata, si vide sequestrare il campo, la capanna, il mulo, il maiale, gli attrezzi, e non da un feudatario spietato e violento, ma da quel grande benefattore – tale si proclamava – che fu il Grande Riscatto”. A questo punto comincia la guerra vera, quella dei cafoni, perché Garibaldi era venuto a togliere il pane da bocca per arricchire i signori; peggio, i piemontesi. Comincia, “quella guerra che i ‘liberatori’ non s’aspettavano, guerra civile, rivolta agraria, reazione, resistenza armata, brigantaggio, tutto uno squallido inferno, uno svettar di fiamme nei boschi, un franar di terre nei torrenti e nelle fiumane”. Una guerra che i cosiddetti briganti combatterono, “contro i ‘galantuomini’ di casa e gli stranieri di fuori, giacché foresti apparivano i piemontesi al cafone, gente d’altra lingua, d’altre usanze, difforme”. Alianello fa riferimento al disprezzo di questi “stranieri” nei confronti delle popolazioni meridionali, intesi dal generale Cialdini come africani: “questa è Africa! Altro che Italia!…” Alianello cita il noto storico inglese Denis Smith, per descrivere come il nuovo reale governo italiano si sia dovuto impegnare per “dare la caccia allo zappaterra e a qualche astioso borboneggiante”. Scrive Smith: “Per mantenere l’ordine nel Sud Italia, il nuovo governo ha dovuto impiegare un esercito di ben 120 mila uomini. Una guerra civile, la più crudele delle disgrazie che possa abbattersi su di un paese, ed il Risorgimento non era stato che un succedersi di guerre civili, fra le quali questa era stata la più crudele, la più lunga e la più costosa…….Il numero di coloro che morirono in questa lotta fu superiore a quello di tutte le guerre del Risorgimento messe insieme”. Dieci anni di battaglie, stragi, assedi, ma soprattutto si fucilò, a torto o a ragione, per mille cause diverse, anche per un solo sospetto, uomini e donne, persino bambini. Alianello, di questa lunga guerra contro le popolazioni meridionali, snocciola numeri precisi, fatti che ha documentato cinquant’anni fa, quando erano pochi a farlo e a conoscerli; oggi, per fortuna, sono ormai dei numeri conosciuti. Esiste una vasta rete di blog in internet, ma anche una diffusa bibliografia, dove ormai si racconta fin nei particolari, “questo martirio, questa insana persecuzione”, come la chiama Alianello. Il messaggio, purtroppo, non passa nelle scuole, dove ancora persiste. Giovanni Cantoni nel suo libro “L’Italia tra Rivoluzione e Controrivoluzione” racconta la ‘drammatica favola risorgimentale’, la ‘leggenda nera’ che i settari, i cantastorie prezzolati, i traditori, gli ingannati, i pigri e gli ignoranti vanno ripetendo sulle piazze e fanno ripetere nelle aule scolastiche, per la formazione dell’uomo e del cittadino”. Scrive Enrico Pani Rossi nel 1868: “Inorridisce davvero e rifugge l’animo per il dolore, né può senza fremito rammentarsi molti villaggi del regno di Napoli incendiati e spianati al suolo e innumerevoli sacerdoti, religiosi, e cittadini d’ogni condizione, età e sesso e finanche gli stessi infermi, indegnamente oltraggiati e, senza neppure dirne la ragione, incarcerati e, nel più barbaro dei modi, uccisi…”. In questo modo la cosiddetta “liberazione” si era trasformata in “conquista”, dittatura rabbiosa, violenta, grondante sangue. Pertanto ai poveri contadini, “cafoni” meridionali, una volta “ortopedizzati” dal nuovo Stato liberale, non gli restò altro che emigrare, abbandonare la propria terra. E’ significativa la prosa letteraria di Alianello, per raccontare come la gente meridionale lascia la propria terra: “Il cafone indossò il vestito nero, quello della festa, che aveva ereditato dal padre o dal nonno, s’accollò la bisaccia di dura canapa e andò a morire di febbre gialla per poter arricchire con le poche stentate ‘rimesse’ non i suoi, ma gli industriali del Nord”. Di questa grande offesa nei confronti dei popoli meridionali, nessuno dei tanti ministri del nuovo Stato o grandi uomini del Meridione, a cominciare dal Crispi per terminare col Croce, ma anche lo stesso Giustino Fortunato, “ha mosso un dito per riscattar l’offesa ancora dolente e continuar l’opera di Ferdinando II; anzi nessuno s’è mai opposto a leggi inique che, per favorire le industrie del Nord, cancellavano ogni traccia di quelle del Sud e ne ferivano a morte l’agricoltura un tempo fiorente. Cap. II Il 13 Febbraio 1861 il Mezzogiorno perse la sua indipendenza Il 13 Febbraio 1861 è una data importantissima per il Sud, seppur pressoché totalmente cancellata dalla memoria della gente, insieme alla coscienza della propria millenaria identità. Quel giorno dell’anno 1861 il Mezzogiorno perse la sua indipendenza, e da Stato sovrano, florido e culturalmente avanzato, passò sotto la dominazione piemontese che realizzò una falsa unità. Unità d’Italia i cui risultati abbiamo davanti agli occhi: povertà sempre più diffusa al Sud, degrado sociale e culturale, ingiuste e continuate campagne denigratorie ai danni del Mezzogiorno, storia negata e cancellata. Il 6 Settembre 1860, Francesco II lasciò Napoli e partì per Gaeta su consiglio di Liborio Romano, il capo della polizia. Il giorno dopo la camorra, coinvolta dallo stesso Romano, scortò l’ingresso di Giuseppe Garibaldi a Napoli e il 21 ottobre sorvegliò sul plebiscito di annessione al Regno d’Italia, con violenze e minacce alla popolazione. L’assedio di Gaeta durò poco più di tre mesi, fu un martirio per i soldati rimasti fedeli alla loro patria e soprattutto per i civili, che furono sterminati dai bombardamenti senza sosta da parte dell’esercito piemontese. Se le tradizionali regole della cavalleria imponevano di non coinvolgere la popolazione nelle guerre, per esse adesso non vi era più posto come in tutta la campagna meridionale, nella quale furono compiuti eccidi e rasi al suolo interi paesi. Così, pure Gaeta subì quella sorte, e le bombe cadevano indiscriminatamente sulla “Piazzaforte”, sulle caserme, sulle chiese, sulle abitazioni. Determinante per la vittoria di Vittorio Emanuele II fu l’aiuto dell’Inghilterra e della Francia. Quando Francesco II decise di firmare la resa per fermare lo sterminio della sua gente, il generale Enrico Cialdini dispose l’intensificazione dei bombardamenti e, approfittando della cessazione delle risposte della fazione avversaria, uscì dalle linee e si avvicinò alla cittadina, per averla meglio sotto tiro. A chi gli chiedeva di fermarsi perché erano in corso le trattative per la resa rispose, dicendo il falso, che la sua abitudine era quella di non fermarsi fino a quando essa non fosse ufficiale: “Sotto le bombe si tratta meglio”, disse. E in tre giorni, infatti, dalla sera del 10 fino al 13, fece sparare ben 60 mila bombe. In questo modo si verificò la drammatica esplosione della polveriera della Batteria Philipstad, la quale causò l’inutile morte di tanti giovanissimi allievi della Nunziatella e di molti civili, già massacrati dal lungo assedio. Il 14 Febbraio Francesco II e la consorte, che si distinse per gli aiuti portati alla popolazione e ai soldati, partirono per l’esilio a Roma. Arrivato là i piemontesi, senza alcun rispetto per colui che aveva perso il regno il giorno prima, inscenarono dei festeggiamenti con lo scopo di infierire. Questo è il comunicato che Francesco II mandò al suo popolo al momento di partire per Gaeta: “Popoli delle Due Sicilie, Si alza la voce del vostro Sovrano per consolarvi nelle vostre miserie. Quando veggo i sudditi miei, che tanto amo, in preda a tutti i mali della dominazione straniera, quando li vedo come popoli conquistati, calpestati dal piede di straniero padrone, il mio cuore Napoletano batte indignato nel mio petto contro il trionfo della violenza e dell’astuzia. Io sono Napolitano; nato tra voi, non ho respirato altra aria, i vostri costumi sono i miei costumi, la vostra lingua la mia lingua, le vostre ambizioni le mie ambizioni. Ho preferito lasciare Napoli, la mia propria casa, la mia diletta capitale per non esporla agli orrori di un bombardamento. Ho creduto di buona fede che il Re di Piemonte, che si diceva mio fratello, mio amico, non avrebbe rotto tutti i patti e violate tutte le leggi per invadere i miei Stati in piena pace, senza motivi né dichiarazioni di guerra. Le finanze un tempo così floride sono completamente rovinate: l’Amministrazione è un caos: la sicurezza individuale non esiste. Le prigioni sono piene di sospetti, in vece di libertà lo stato di assedio regna nelle province, la legge marziale, la fucilazione istantanea per tutti quelli fra i miei sudditi che non s’inchinino alla bandiera di Sardegna. E se la Provvidenza nei suoi alti disegni permetta che cada sotto i colpi del nemico straniero, mi ritirerò con la coscienza sana, farò i più fervidi voti per la prosperità della mia patria, per le felicità di questi Popoli che formano la più grande e più diletta parte della mia famiglia”. Cap. III I problemi che hanno aumentato il divario tra Nord e Sud sin dai primi anni dell’Unità: 1) I lavori di ampliamento ferroviario partiti al Sud solo nel 1865; 2) I licenziamenti e le chiusure di attività, come alla Zecca napoletana, al Lotto, all’Arsenale, ai Cantieri navali di Castellammare; 3) L’aumento delle tasse e la diminuzione delle commesse per le aziende meridionali che nell’ex regno borbonico erano tutelate dalle restrizioni doganali. (Furono 800 gli operai che persero il lavoro a Pietrarsa, 1000 tra l’arsenale di Napoli e Torre del Greco); 4) La nuova disoccupazione, anche per l’introduzione dell’imposta sui redditi di ricchezza mobile che era inesistente nel regno borbonico. 5) La raccolta di capitali al Sud che venivano investiti al Nord attraverso l’apertura di filiali della Banca nazionale; 6) La sottrazione di riserve auree del Banco di Napoli, che passarono da 78 milioni nel 1863 a 41 milioni nel 1866. Il Risorgimento “al contrario” di Luigi Di Fiore Esiste una memoria omologata che, per creare da zero un’identità nazionale, ha coperto o rimosso scomode verità su come venne unità l’Italia tra il 1848 e il 1870? Attraverso documenti inediti e consultando numerosi archivi anche privati, Luigi Di Fiore, studioso del Risorgimento e del brigantaggio post-unitario, racconta, con agile stile giornalistico, gli anni fatidici in cui fu costruita l’Italia, svelandone i falsi miti e le mistificazioni. Ne emerge un quadro diverso da quello che si è insegnato e si insegna ancora frettolosamente a scuola, dove l’ansia di creare radici condivise e di “far diventare italiani” intere generazioni di piemontesi, lombardi, veneti, napoletani, toscani, siciliani ha rimosso non solo numeri e crudeltà della prima guerra civile nazionale, quella del brigantaggio, ma anche le corruzioni, le bugie, le rappresentazioni eroiche dove i buoni erano sempre gli unitari da una parte e i cattivi antiunitari dall’altra. Non a caso, molti problemi di cui si dibatte oggi in Italia sono diretta eredità degli anni in cui fu realizzata la Nazione da appena il 2 per cento dei 21 milioni di abitanti della penisola. Nel libro, Il Risorgimento “al contrario”, ricco di retroscena inediti su quel periodo, si scopre, pagina dopo pagina, che molti dei temi politici, culturali ed economici di attualità erano già dibattuti agli albori dell’unità. Qualche esempio, tra i tanti contenuti nel testo del Di Fiore: 1) Mafia e camorra – Nella mitizzata avanzata di Garibaldi ebbe un ruolo importante la criminalità organizzata già presente nel Sud d’Italia. I picciotti siciliani e i camorristi napoletani prepararono il terreno e aiutarono le camicie rosse, sperando e spesso ottenendo benefici dal nuovo governo. “Naturale che quando si doveva fare una rivoluzione non si badasse tanto per il sottile alle fedi di perquisizione di coloro cui si ricorreva; per me qui sta l’origine della mafia”, dichiarò il duca siciliano Gabriele Colonna di Cesarò. E l’ex ministro borbonico Liborio Romano, poi deputato italiano, raccontò: “Pensai prevenire le tristi opere dei camorristi, offrendo ai più influenti di loro capi un mezzo per riabilitarsi”. 2) Corruzione – Furono ben 16 gli ufficiali borbonici che avrebbero dovuto fermare i garibaldini, relegati a Ischia e processati per codardia e negligenza. Su molti di loro, i sospetti di tradimento e corruzione: ufficiali della marina e dell’esercito, dalle storie diverse, in una guerra in cui l’armata piemontese non si fece scrupolo di bombardare città piene di civili, come a Capua e Gaeta, dove a centinaia rimasero sepolti sotto le macerie delle loro case, come risulta dagli archivi comunali. Solo a Gaeta, i danni stimati furono di due milioni di lire del 1861; 109 le case inagibili su 2400 in gran parte danneggiate. 3) Disavanzo di bilancio – All’unità d’Italia già il nuovo Stato pagava lo scotto delle guerre risorgimentali con un enorme deficit di bilancio: 500 milioni nel 1861, che si sperava di colmare attraverso le casse degli Stati conquistati e riuniti al Piemonte. In quel momento, il debito pubblico piemontese era di 64 milioni di lire contro i 26 delle Due Sicilie. Nel 1862, il bilancio di previsione stimava un disavanzo di più di 308 milioni di lire. Furono necessarie nuove tasse, sconosciute al Sud, come quelle sulle successioni e donazioni, o sui bolli; o vendere dei beni pubblici, come lo stabilimento metallurgico di San Pier d’Arena. 4) Divario tra Nord e Sud – Lavori di ampliamento ferroviario partiti al Sud solo nel 1865, stillicidi di licenziamenti e chiusure di attività: alla Zecca napoletana, al Lotto, all’Arsenale, ai Cantieri navali di Castellammare. Più tasse e meno commesse per le aziende meridionali che nell’ex regno borbonico erano tutelate dalle restrizioni doganali. Furono 800 gli operai che persero il lavoro a Pietrarsa, 1000 tra l’arsenale di Napoli e Torre del Greco. Nuova disoccupazione, anche per l’introduzione dell’imposta sui redditi di ricchezza mobile che era inesistente nel regno borbonico. I capitali raccolti al Sud venivano investiti al Nord attraverso l’apertura di filiali della Banca nazionale. Al Banco di Napoli, penalizzato dall’imposizione del corso forzoso, si impedì invece l’apertura di filiali al centro-nord. Le riserve auree della banca meridionale passarono da 78 milioni nel 1863 a 41 milioni nel 1866. 5) La guerra civile – Ben 80 anni prima della Resistenza, l’Italia unita visse la sua prima guerra civile nel Mezzogiorno: la guerra armata contadina del brigantaggio, che insanguinò il Sud per dieci anni dal 1860 al 1870. Nel solo periodo compreso tra il 1861 e il 1863, i documenti ufficiali parlano di 2413 morti in combattimento, 2768 arrestati, 923 costituitisi tra i briganti. I militari, mandati a reprimere la rivolta e a fare i gendarmi, raggiunsero negli anni il numero di 120 mila nel Sud. Nel primo anno, morirono in combattimento in 412, con 269 feriti. Fu il tempo degli eccidi; dei paesi distrutti (6 solo nel 1861), come Pontelandolfo; delle leggi speciali con potere repressivo, ma anche amministrativo concentrato nelle mani degli ufficiali quasi tutti di origine piemontese. Molti si sentivano estranei al Sud e avevano addirittura bisogno di interpreti per tradurre le conversazioni con i prigionieri, come risulta dai documenti dell’Ufficio storico dell’esercito. Si era in guerra, guerra civile, ma non si poteva dirlo: che figura si sarebbe fatto con l’Europa? Eppure, alla fine, ai militari in azione nel Sud furono assegnate 7391 ricompense. 6) Cattolici e laici – L’integrazione tra cultura laica dello Stato e cultura cattolica non fu semplice. Negli anni del Risorgimento si arrivò per legge a sopprimere 2099 enti religiosi, escludendone 7871 frati, monache e sacerdoti. Portarono allo Stato piemontese rendite per tre milioni e 651 mila lire. Molti arcivescovi furono imprigionati, perché ritenuti antitaliani a Torino, come a Cagliari, a Napoli, ad Avellino. A unità avvenuta, Pio IX chiese ai cattolici di non partecipare alle competizioni elettorali. L’Italia unita era già divisa: cattolici contro laici; meridionali trattati con leggi speciali e repressione militare rispetto al resto della Nazione; repubblicani mazziniani e democratici contro destra cavouriana. Fratture che si rifletteranno sulla cultura, la tradizione, la politica e il sentire comune degli italiani fino ai giorni nostri. 7) Controllo della stampa – Nulla fu risparmiato al cinismo per unire l’Italia: corruzioni di funzionari, uso spregiudicato dei carabinieri per aizzare la folla e simulare proteste di piazza spontanee in Emilia, come in Toscana, fasulle e pilotate consultazioni elettorali (i plebisciti) per dare formale legittimità giuridica ad annessioni ottenute con la forza: a Firenze, poi Bologna, Napoli, Venezia, Roma. Nel Veneto, la cessione tra Austria, Francia e Italia fu sancita in una camera d’albergo prima del plebiscito. E, naturalmente, Cavour intuì anche la forza della propaganda e dei giornali. Finanziò l’agenzia di stampa nazionale, la Stefani, e molti giornali, imponendo spesso a costoro cosa scrivere. Nulla di nuovo sotto il sole, una storia vecchia per l’Italia. In una lettera poco conosciuta, Cavour scrisse a Guglielmo Stefani, che stava per fondare l’omonima agenzia di stampa che verrà chiusa solo alla caduta del fascismo: “La ringrazio dell’offerta dei suoi utili servizi, dei quali sappia che io tengo conto e memoria”. Cap. IV La politica del governo nei confronti del Meridione All’indomani dell’unificazione del regno da parte di Garibaldi, divenne luogo comune l’affermazione che il Nord fosse una società industriale avanzata, mentre il Sud altro non era che una società agraria arretrata. Ma i motivi veri di questo enorme divario sono da ricercare in diversi fattori che vanno al di là delle affermazioni del Croce che, ne attribuisce le cause alle strutture istituzionali ed organizzative; oppure di Gramsci che, comunque, concorda col Croce sulla diversità organizzativa delle città e dei centri urbani nel Nord ed il sistema feudale nel Sud. Alcune cause sono da ricercare nella morfologia del suolo e del clima, secco, arido e privo di minerali il Sud; la distanza dai mercati europei, nonché da quei luoghi che avevano iniziato la rivoluzione industriale. Queste differenze non fecero altro che accelerare l’evoluzione del settentrione, a fronte di un forte ritardo del meridione. Se poi a questo si aggiunge la politica di governo, nel decennio 1878-1887, l’aumento tariffario sui dazi, sul grano e sui beni industriali, significò per il Sud la chiusura dei mercati esteri (Francia in particolare). Allora ecco che si spiega il fallimento del meridione. Al sud non si era verificato nessun processo di sviluppo agrario, anche grazie agli accordi intercorsi tra Cavour e la borghesia terriera meridionale che trasformarono l’insurrezione dei contadini in un processo di brigantaggio come scrisse, nel 1861, Diomede Pantaleone a Minghetti: “i proprietari sentono che senza di noi ed il nostro esercito sarebbero sgozzati dai briganti”. Ma il colpo definitivo, quello fondamentale fu l’emigrazione della mano d’opera e la conseguente crescita di una massa inattiva che viveva sulle rimesse e sui pochissimi lavoratori rimasti. Tutto questo portò all’enunciazione dell’economista classico-liberal americano, G. Hildebrand: “…in mancanza di un drastico intervento dello Stato, il Mezzogiorno era condannato fin dall’inizio; incapace com’era di difendersi, poteva solo tentare di diminuire in qualche modo l’enorme divario che lo separava dal Nord più fortunato”. Detto divario si amplificò a dismisura nella città di Napoli, antica capitale del Regno, con la perdita dei suoi privilegi e col decentramento del potere economico verso il Nord. Napoli che era cresciuta sulle spalle del suo entroterra, si trovò, di colpo, svuotata e divenne, come disse Compagna, “La testa troppo ingrandita di un corpo apoplettico”. Dopo l’unità d’Italia, la divaricazione fra Nord e Sud, era data essenzialmente dalla diversità dei quadri sociali ed economici che, mentre nel Settentrione avevano assunto già una configurazione di tipo capitalistico, nel Meridione si erano fermati ad uno stadio precapitalistico di tipo feudale, caratterizzato da una tendenza conservatrice e di gretto immobilismo negli alti gradi della borghesia. Il ceto medio meridionale, inoltre, a differenza di quello settentrionale, era subordinato all’aristocrazia nobiliare e quindi incapace di poter assurgere al rango di nucleo propulsore dello sviluppo e dell’indispensabile processo di rinnovamento. La politica adottata dalla classe dirigente post-unitaria non solo ignorò, di fatto, il problema del divario sorto con l’unificazione, ma lo accentuò mettendo in crisi l’iniziativa industriale del Napoletano; in tal modo, invece di accelerare lo sviluppo economico del Sud si preparò il declino delle strutture già esistenti, come nel caso dell’unificazione dei sistemi finanziari e del nuovo sistema tributario. Nel prelievo fiscale, infatti, nella seconda metà dell’800 si realizza una forte sperequazione Nord e Sud, soprattutto per quel che riguarda la spesa pubblica. Nello stesso periodo, inoltre, si realizzava il trasferimento verso il Nord di notevoli mezzi finanziari dal Meridione per sanare il deficit pubblico del Piemonte, rilevante a causa delle guerre sostenute e del continuo potenziamento dell’esercito. Per il Sud, così, si veniva a creare una situazione di sudditanza finanziaria che, oltre a mortificare gli slanci imprenditoriali, ne impediva lo sviluppo. Le industrie esistenti nel Regno delle Due Sicilie, in modo particolare quelle napoletane e salernitane, operanti nel campo meccanico, siderurgico e della lavorazione di lino e canapa, denotavano una certa vitalità e prosperità, anche se la loro attività era protetta dalle alte tariffe doganali borboniche e da una forte domanda dello Stato stesso. Anche per quel che riguarda le società per azioni, il divario fra il Nord ed il Sud si allargava sempre più. Nel 1865 l’87,1 % del capitale delle società per azioni era concentrato nel Nord-Ovest, il 2,2 % nel Nord-Est, il 6,5 % nel Centro ed il 4,2 % nel Sud. Mentre lo sviluppo economico nel Sud attraversava una fase di ristagno e recessione, al Nord prosperava l’industria tessile che, dopo aver assimilato un gran numero di piccole imprese artigiane, impiegava mano d’opera specializzata, divenendo la forza trainante di tutta l’industria italiana. Contemporaneamente, nelle maggiori città, si ponevano le basi per il decollo dell’industria pesante. In Piemonte e Lombardia, inoltre, l’agricoltura presentava caratteristiche di progresso non dissimili da quelle del resto dell’Europa avanzata: l’introduzione e la sperimentazione di nuove tecniche agricole, l’uso di mano d’opera salariata, l’allevamento del bestiame e l’industria casearia, avevano portato la produzione a livelli più che buoni. Francesco Saverio Nitti e la sua indagine economica del Mezzogiorno Tra i primi a dare l’avvio all’indagine storica sul problema economico del Mezzogiorno fu Francesco Saverio Nitti con la sua inchiesta sulla ripartizione territoriale delle entrate e della spesa pubblica in Italia dal 1862 al 1896-97, poi seguita da quella che poneva a confronto le condizioni economiche di Napoli prima e dopo l’Unità. Attraverso i suoi studi, Nitti giungeva alla paradossale conclusione che il sistema borbonico sembrava essere il più indicato per incrementare la ricchezza nel Mezzogiorno. Il prelievo fiscale non era gravoso ed il sistema di esazione molto semplice; il debito pubblico era 1/4 di quello del Piemonte, i beni demaniali ed ecclesiastici avevano un valore elevatissimo e la quantità di moneta circolante era pari al doppio di quella di tutti gli altri Stati della penisola messi insieme. In questo tipo di sistema, però, il credito veniva praticato soprattutto da usurai o da grandi proprietari, che prelevavano dagli istituti di credito denaro a basso tasso e lo concedevano ad altissimo interesse. Gli stessi istituti di credito si comportavano in maniera dualistica nella concessione di fidi: denaro a basso costo ai grandi proprietari e tassi alti ai contadini. Un sistema siffatto non agevolava l’agricoltura: i contadini (che molto spesso raccoglievano appena quel che bastava per la sussistenza) erano costretti, infatti, a pagare degli interessi tali da scoraggiarli nell’impegnare grosse somme nell’innovazione della lavorazione della terra. Le famiglie erano numerose, onde poter disporre di più braccia, l’innovazione non era praticabile per mancanza di fondi, la produzione restava relegata all’autoconsumo, ogni tentativo di ricorso al credito creava situazioni finanziarie disastrose. Cap. V La verità storica sull’unificazione. Il tempo dirà tutto di Nicola Zitara Non si tratta si restaurare la monarchia borbonica con cui la storia ha già fatto i conti. Solamente di ristabilire la verità storica. “Con la guerra civile postunitaria e centomila morti – secondo le stime più prudenti – noi siamo divenuti di fatto un popolo sconfitto. Come tutti i popoli sconfitti, per sottometterci ci hanno sottratto anche la memoria di ciò che eravamo, cancellando insieme al nostro passato anche un possibile futuro”. Ma le ingiurie del tempo non durano in eterno e come scriveva Euripide in un frammento: “Il tempo dirà tutto alla posterità. E’ un chiacchierone, e per parlare non ha bisogno di essere interrogato.”. Molti si sono messi in ascolto delle verità seppellite per mano dei vincitori. Grazie alla rete, le gerarchie sulla circolazione delle notizie sono state azzerate. Bastano pochi euro e spesso neanche uno per scambiarsi documenti, idee, senza le mediazioni di accademie e di soloni interessati a mantenere coperte certe storie scomode. Scrive Nicola Zitara che non si può fondare un futuro su un passato negato (1): “Siamo stati un grande popolo, abbiamo una grande storia. Non c’era alcun bisogno che arrivasse Garibaldi per insegnarci la libertà, sapevamo difenderla per antiche virtù, l’avevamo difesa in cento passaggi della storia. Siamo stati grandi quanto gli altri, qualche volta più degli altri. Siamo stati civili quanto gli altri, qualche volta più degli altri. Il nostro passato non è lontano millenni, come si racconta, ma solo centocinquant’anni. E’ necessario che la coltre di bugie che circonda la nostra identità collettiva sia fugata. La consapevolezza del passato ci aprirà gli occhi e ci permetterà di guardare al futuro.” “Io abito in Padania e vi posso assicurare che le menate leghiste poggiano su solide fondamenta – al di là delle ampolle d’acqua del Po – che si possono condensare in una parola unica: benessere. Vogliono continuare a garantirselo, a tutti i costi, anche inventandosi una storia e una nazione assolutamente inesistenti. Noi una storia ce l’abbiamo, Napoli era una grande capitale, il Sud stava marciando con un suo passo verso la modernità e questo viaggio fu interrotto al suono dei plotoni d’esecuzione e con falsi plebisciti. Oggi siamo ad un bivio: o ci riappropriamo delle nostre radici e guardiamo senza complessi di inferiorità al futuro o rischiamo di precipitare in un abisso che potrebbe tingersi di foschi colori sudamericani”. (1) Nicola Zitara, nato a Siderno (RC) da Vincenzo, oriundo amalfitano, e da Grazia Spadaro, di famiglia siciliana, discendeva da una famiglia ottocentesca d’imprenditori, originaria di Maiori, i quali possedevano velieri da trasporto merci e che ai primi del Novecento si trasferì dalla Costiera Amalfitana alla marina di Siderno, allora pressoché deserta. Frequentò il liceo classico a Locri e l’università a Napoli, per poi laurearsi in giurisprudenza a Palermo. Dopo gli studi, collaborò con il padre per diversi anni nell’azienda di famiglia, per poi trasferirsi a Cremona quale insegnante di diritto ed economia. Rientrato a Siderno nel 1961, dopo la morte del padre, prese la conduzione dell’azienda, ma congiunture sfavorevoli al mercato meridionale lo portarono a chiuderla. L’esperienza negativa lo segnò profondamente e lo portò ad iniziare uno studio intenso delle leggi economiche e a compiere un’approfondita riflessione sulle vicende dell’Italia meridionale pre – e post – unitaria. Il pensiero di Nicola Zitara In effetti, un’analisi realmente approfondita del pensiero di Zitara non può prescindere da un discorso sulla sua esperienza e sugli orientamenti politici degli anni della sua formazione. Zitara nasce in un ambiente culturale di sinistra, fonda e dirige la sezione catanzarese del PSIUP, è direttore di Lotta Continua, poi di Quaderni Calabresi, meridionalista ed infine separatista. E’ facile dunque immaginare il perché in vita Zitara sia stato una personalità ostica, complessa, per molti un rospo da mandar giù o un folle da isolare, un intellettuale ruvido e realmente fuori dagli schemi del mondo stereotipo. Una cosa però va detta: Zitara restò socialista, non abbandonò mai l’idea di una lotta complessiva per il miglioramento dell’uomo, per un reale salto di qualità nei rapporti sociali di produzione, per la fine effettiva dello sfruttamento capitalistico che nella nostra terra prende il volto del colonialismo interno. Zitara risponde alle domande sul colonialismo “Vedi, tutte le nostre città hanno qualcosa in comune. Rivoli di stradine, viuzze che si intrecciano e che conducono alle strade principali e queste si aprono sul corso ed il corso come un fiume che sfocia a mare ci porta nella piazza. Un abitato costellato da migliaia di minuscole attività commerciali, tanti bar, sale giochi e locali di ristorazione che si alternano a negozi di articoli di lusso e centri della grande distribuzione settentrionale. Basta sollevare il capo e notare le insegne dei gruppi assicurativi e bancari italiani ed europei. E’ la metafora neppure celata del colonialismo italiano. Una urbanistica coloniale che Zitara individua nella Reggio Calabria degli anni ’70 e che manifesta l’intreccio tra banca, capitale settentrionale e distribuzione meridionale in un capitalismo dei consumi che regola e disciplina il sottosviluppo”. La funzione negativa di una banca forestiera operante su una nostra piazza non sta tanto nel fatto che funziona da pompa per drenare altrove il nostro risparmio, quanto in quello che non compie operazioni rischiose, quali sono quelle industriali. In pratica finanzia il commercio. Ed è proprio attraverso il commercio che passa e si rafforza la subalternità coloniale, in quanto il commercio (oggi detto distribuzione: alimentari, tessuti, edilizia, legno, ecc.) si approvvigiona presso gli industriali. In sostanza, con il risparmio locale “le banche hanno sempre prefinanziato lo sbocco meridionale dell’industria padana”. “In questo contesto sorto all’indomani dell’Unità d’Italia con l’esproprio dei Banchi di Napoli e di Sicilia, non siamo padroni del nostro risparmio. Esso finisce a Milano e viene reinvestito dagli istituti di credito soltanto nei consumi, ma per potere adempiere al nostro dovere di fedeli consumatori, abbiamo bisogno di denaro perché senza denaro non si può comprare la merce settentrionale, eppure solo chi ha un lavoro possiede il denaro da spendere. Ecco dunque la ragione pura dell’intervento straordinario”: “Lo stato interviene nell’economia per garantire posti pubblici e misure assistenzialistiche minime in modo da dare reddito al Sud e farne aumentare la capacità di acquisto senza però farne aumentare la capacità produttiva”. E’ questo il tratto saliente del sistema che Zitara qualifica come colonialismo interno. Egli scriveva: “…si possono individuare le seguenti principali condizioni che fanno del Mezzogiorno un’area coloniale: 1. Dipendenza da altre aree per la maggior parte dei beni di consumo e di investimento; 2. Produzione agricola rivolta all’esportazione sotto la forma di materie prime; 3. Drenaggio delle risorse ambite dalle aree sviluppate, nella fattispecie delle forze lavorative; 4. Subordinazione culturale” . La colonia interna insomma garantisce al Nord manodopera qualificata e a basso costo, derrate agricole a prezzi stracciati, smaltimento rapido e vantaggioso dei propri prodotti (e dei rifiuti industriali) e carne da macello per le proprie guerre imperialiste. La classe dirigente e quella partitica e sindacale meridionale amministrano la colonia, fanno da cintura di trasmissione delle direttive nordiste, impongono persino i contenuti delle lotte sociali: “Oggi il Sud gravita economicamente sulla sua efficienza coloniale, la quale ha due aspetti fondamentali. Il primo è la distribuzione dei prodotti industriali, agricoli e del terziario padano, dalla quale ottiene il cosiddetto ricarico commerciale, il valore aggiunto che va al terziario locale. L’altra fonte di sussistenza è la corruzione clientelare. La Regione Lombardia ha 4000 addetti, la Regione Sicilia, un po’ meno popolosa, ne ha 23000. Ovviamente si tratta di assistenza carpita all’intera nazione, ma ad essere corrotti non sono solo i politici siciliani. La politica nazionale, non volendo affrontare i problemi siciliani ha creato una classe “cuscinetto” a favore dell’unità politica. Discorso consimile si può fare per tutte le mafie meridionali, le quali si adoperano a calmierare le possibili ripercussioni sociali e politiche della disoccupazione con un drenaggio di profitti realizzati nelle altre parti del Paese e, pare, in tutto il mondo”. Al governo della colonia insomma concorre una borghesia burocratica e parassitaria che si nutre di clientele e finanziamenti, essa prospera sulla pelle della propria terra. “Voltandola in termini di geopolitica, al Sud, la classe sociale, che gli economisti latino-americani hanno definito “borghesia compradora”, legata com’è agli interessi di Milano, rappresenta un nemico reale e possente. Trattasi di regola di imprenditori moderni che fanno da tramite tra le aree sviluppate e le aree sottosviluppate, tragicamente depresse dai meccanismi del mercato capitalistico”. Per spezzare il giogo coloniale il separatismo rivoluzionario è la sola risposta politica perseguibile; una vera e propria rivoluzione con marcati tratti sociali. Per Zitara, infatti, “la separazione d’Italia è inevitabile; il problema d’affrontare non è questo, ma se, dopo la separazione, il Sud sarà ancora governato dall’attuale classe politica, o dai suoi abitanti e per i suoi abitanti. Ciò non si decide domani, ma oggi, in base al modo in cui si strutturerà il partito separatista” . Non basta dunque la sola separazione: “… un governo fantoccio servirebbe a mascherare la continuazione del colonialismo toscopadano, che non si esprime più con le baionette, ma con l’usura
1 Comment
BestKristofer
20 Luglio 2019 at 5:54I see you don’t monetize napolireport.it, don’t waste your
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